Cambogia: Mekong in piena, e i confini d’acqua scompaiono

Sono stato in Cambogia durante la stagione delle piogge, mica uno scherzo. Volevo vedere il Mekong, l’undicesimo fiume più lungo al mondo con i suoi quasi 4.900 chilometri. Dall’altopiano del Tibet (anche se dove nasca, esattamente, ancora non è chiarissimo) scende giù verso lo Yunnan cinese, per poi penetrare tutta l’Indocina, o quasi: Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam.

Phnom Penh, la capitale, vi si affaccia solo per modo di dire: il lungofiume, gradevole e molto frequentato, guarda in realtà sull’ultimo braccio del Tonle Sap, il lago a nord quasi confina con le mitiche rovine khmer di Angkor e che, trasformandosi in fiume – grazie anche a un canale artificiale – scende giù sino alla capitale. Il Mekong è appena più in là, separato dal Tonle Sap da Koh Dach, l’isola della Seta. La sera, le crociere turistiche solcano le sue acque. Ma non era questa la mia idea di fiume.

Volevo vedere la vita, scorrergli attorno. Così mi sono spostato nella provincia di Kompong Cham, a nordest della capitale, lungo la strada che porta in Laos passando per Kratie, la cittadina da dove partono le escursioni per vedere (o meglio, per sperare di vedere) i famosi delfini d’acqua dolce del Mekong.

Prima di arrivare a Kompong Cham, siamo passati per Spiderville, che in realtà si chiama Skuon e deve il suo nome, come avrete intuito, non tanto alla folta presenza di ragni, ma al fatto… che qui siano una specie di prelibatezza, specie se fritti. Vi dirò subito che non li ho assaggiati, né ho fatto la foto cretina (ne avrete viste, sulla rete…) con la bocca aperta e il ragno pronto per essere avidamente mangiato. Ecco, mi è bastato fotografare questo:

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Kompong Cham è una cittadina tranquilla: fa 70 mila abitanti, ma non lo diresti mai. Specie se trovi alloggio sul lungofiume, dove la vita scorre più tranquilla rispetto all’interno. Pochi turisti, si fermano qui. Di viaggi organizzati, neppure l’ombra. Al massimo può capitare che su uno dei suoi moli attracchi un battello deluxe, di quelli che risalgono il corso del Mekong e sbarcano il proprio “carico umano” per una fugace occhiatina in giro, prima di ripartire.

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Sul lungofiume, qui come altrove, la vita è frizzante, quasi frenetica al tramonto. I bambini giocano per strada, i fidanzatini si siedono su sponde e parapetti, ci sono improbabili corsi di danza comune all’aperto mentre per l’aria tersa della sera si spande il profumo sfrigolante degli arrosticini e delle pannocchie, in un interminabile viavai di scooter.

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Nei periodi di secca, una delle principali attrazioni della città è il ponte fatto di bambu, che collega Kompong Cham all’isola di Koh Paen e che viene ricostruito ogni anno, visto che la piena del Mekong se lo inghiotte senza tanti problemi. Ho preso in affitto una bici, o meglio un rampichino. In teoria, avrebbe dovuto esserci un servizio di ferry per scavalcare il fiume e andare dall’altra parte. Ma non c’era, o io non l’ho trovato. Dunque, ho deciso di lasciar perdere l’isoletta e mi sono inerpicato sull’enorme ponte che scavalca il fiume, prima salendo, poi scendendo vertiginosamente.

E’ stato lì, quando mi sono fermato sulla sommità per tirare il fiato e guardare il fiume) che ho iniziato ad avere qualche problema d’orientamento. Mi ci è voluto un po’ di tempo, per capire: sulla sponda orografica destra del fiume, la città – allenata a convivere con il Mekong – era protetta dalle piene da una serie di argini rinforzati e alti parapetti; sulla sponda sinistra, la terraferma… era di fatto scomparsa. Così anche il suo simbolo, il vecchio faro francese meta dei romanticoni al tramonto, spuntava sulle chiome degli alberi, accomunati dal fatto d’essere stati sommersi dal fiume in piena.

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Costruita su un terrapieno evidentemente al riparo dalle inondazioni, almeno da quelle non eccezionali, la statale 7 proseguiva asfaltata e piuttosto sinuosa, punteggiata ai lati dalle baracche-ristoro, quasi tutte caratterizzate da una sorta di patio coperto con decine di amache al posto dei tradizionali tavolini.

A guardarle sul davanti, le case sembravano per così dire normali. Ma a girarci intorno, finivi per scoprire che erano tutte palafitte e che se per sbaglio il padrone di casa fosse uscito sul retro, sarebbe invariabilmente caduto in acqua. A quel punto ho legato la bici a un palo e mi sono avventurato per le stradine fangose, destinate a terminare nel nulla perché le rive erano state inghiottite dal Mekong.

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E lì, apparentemente caotico ma in realtà cadenzato ed efficiente, mi sono imbattuto in una sorta di servizio di taxi acqueo, fatto di tanti traghettatori destinati a trasferire sulle loro piccole imbarcazioni a motore gli abitanti delle palafitte più lontane, irraggiungibili via terra. Sono rimasto lì per un po’ a guardarli, già sapendo cosa avevo in testa…

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E poi sì, l’ho fatto. Vedete la foto qui sopra? Sono campagne inondate, a perdita d’occhio. Ebbene, sono sceso all’imbarco improvvisato, ho dato tempo ai presenti di squadrarmi sorpreso, poi mi sono messo a gesticolare.
“Sì, avete capito bene: voglio venire con voi”
Loro ridacchiano.
Io penso: “Eddai, tanto lontano non andrai a finire, male che vada non riesci a tornare prima del tramonto e ti ritroverai a dormire chissà dove”.
Il fondale, all’inizio, è basso. Bisogna scendere a terra e spingere la barca. Poi bisogna tastare il fondo con il un lungo remo. Non è mare, non è fiume. E’ terra sommersa, non è facile. Ci sono molti tronchi che galleggiano, e piante che spuntano. Tutt’attorno, acqua e chiome affioranti.

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Procediamo speditamente ora, in un tratto sufficientemente profondo. Poi, in lontananza, un primo gruppo di palafitte. Con me e i due barcaioli ci sono altre tre persone, due donne e un uomo. Li stiamo riportando a casa, con le loro borse della spesa.

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E’ un mondo strano, questo. Vorrei tornare tra qualche mese, quando la stagione delle piogge sarà finita. Per scoprire dov’erano le strade, dove le risaie. Intanto, l’ultimo passeggero è sceso. Io penso che ora torneremo indietro, per imbarcare altri abitanti delle “terre sommerse”. E invece no, facciamo un giro strano per poi fermarci davanti a una baracca-emporio. C’è una giovane donna che cuce con una Singer, e uomini che giocano a carte su una stuoia. Guai a farsi prendere dal panico.

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Enjoy, relax. Una birra ghiacciata da un frigo, il tentativo esternamente vano di capire con quali regole giochino a carte gli altri popoli, i bambini che mi gironzolano intorno, divertiti e incuriositi. penso: forse resterò qui. E invece, dopo un po’, il barcaiolo fa cenno al suo “mozzo” e mi indica di salire sulla barca. Mi riporterà indietro.

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