Sette metri, ci era stato detto al briefing. Distanza di sicurezza”.
Sulle prime, mi era sembrato strano: i gorilla hanno una forza e una rapidità incredibili. Noi possiamo anche stare a sette metri di distanza, ma se quelli decidono di attaccarci, neppure cento metri, forse, basterebbero. Né possiamo immaginarci di aggrapparci al primo albero, perché loro sarebbero già lì.
Poi, la guida ce l’ha spiegato meglio.
“La distanza di sicurezza è per loro, non per noi. Così non si abituano troppo alla presenza dell’uomo. Ma soprattutto, non prendono le nostre malattie: i gorilla hanno un sistema immunitario molto fragile, anche un solo starnuto potrebbe diffondere batteri per loro letali”.
Beh, almeno ho capito perché quel tizio è stato escluso dal nostro gruppo. Aveva un brutto raffreddore, e quelli del parco nazionale non ci hanno pensato su due volte.
“Sorry, you stay here”.
Gli hanno detto che poteva sempre tornare quando gli era passato. Oppure, farsi ridare i soldi –tanti soldi- che aveva già sborsato.
I gorilla di montagna (ps: ci sono anche quelli di pianura) vivono solo nelle foreste tra Uganda, Congo e Rwanda. Decimati dai bracconieri, ne sono rimasti appena seicento, suddivisi tra i parchi di Bwindi, Virunga e quello in cui ci troviamo, in territorio ruandese ma al triplo confine con Uganda e Congo. Sei-cen-to, in tutto il mondo. Per vederli, insomma, bisogna venire sino a qui. Pagare una bella cifra, attorno ai 300 euro, il che inizialmente può sembrare una rapina al turista, un modo bieco di fare business sulla pelle di occidentali danarosi. Ma poi capisci che il parco vive di questo, dei permessi per i “Gorilla trek”, e un po’ te la metti via.
I permessi sono contingentati, bisogna prenotarli parecchi mesi prima. Siamo in sette, ad averli, nell’Overland. E non vediamo l’ora, anche se le condizioni meteo non sono delle migliori: ieri ha piovuto per quasi tutto il giorno, il trekking nella foresta per avvistarli non sarà una passeggiatina. Ci hanno spiegato che si può scegliere tra una camminata relativamente breve (un paio d’ore, solo andata) e una più lunga. Ma il mio ginocchio destro scricchiola, e il terreno sarà fradicio. Infine, sono qui per vedere i gorilla, non per esplorare la foresta: trekking breve, allora. Ci siamo svegliati alle cinque e mezzo del mattino: poche ore prima, ci eravamo accapigliati davanti alle due uniche prese di corrente del campeggio, tutti preoccupati di avere le batterie delle fotocamere più che cariche per l’occasione.
Ora siamo nel quartier generale del Parco nazionale dei vulcani, pronti per il briefing. Nella stagione di punta, che è poi la nostra, il parco rilascia 60 ingressi al giorno, non uno di più. I visitatori vengono divisi in gruppi che vanno dalle cinque alle otto persone. E a ciascuno viene “assegnata” una zona. I gorilla vivono in branco e in genere si spostano di poche centinaia di metri al giorno. Dunque, se sai dov’erano ieri, e lo sai perché li hai visti, non avrai difficoltà a rintracciarli oggi. Qui non servono i radiocollari, l’esperienza delle guide è più che sufficiente. Noi siamo in otto: io, Linda, Kate, Claire e Sonia più una signora finlandese sui cinquanta e una coppia americana di Seattle con portatore al seguito: uno “schiavetto” personale che ci fa inorridire, ma i due hanno passato i sessanta e forse non ce la fanno a salire con gli zaini. La nostra guida si chiama Hope, speranza. Con lui c’è Vincent, una specie di aiutante che non aprirà bocca per tutto il giorno.
Il nostro obiettivo è incontrare il Gruppo 13: sono in venticinque, con un silverback (il gigantesco maschio dominante, così chiamato perché sulla schiena ha una sorta di striscia argentea) e molti piccoli. É il secondo nucleo familiare più numeroso del parco dopo i mitici Susa, quelli immortalati dal film “Gorilla nella nebbia” – guarda il trailer qui – con Sigourney Weaver nei panni della zoologa Dian Fossey, che proprio qui imparò a conoscerli e ad amarli.
Due jeep ci portano ad un vicino villaggio, dove ci vengono consegnati robusti bastoni di legno istoriato, con l’immagine di un gorilla appena sotto l’impugnatura. Partiamo a piedi da qui, in fila indiana: davanti c’è un soldato, dietro a lui Hope e il porter degli americani, noi otto, Vincent e un altro soldato a chiudere la fila. Tredici in tutto, speriamo porti bene… I due soldati indossano la mimetica, a tracolla un fucile mitragliatore, sul fianco il machete. Piuttosto inquietante, la cosa. Sarebbero pronti a uccidere un (preziosissimo) gorilla per salvare un turista?
Hope ci legge negli occhi: “I gorilla non attaccano. I rischi sono altri: una iena, o i bufali. Alle volte caricano…”
Nel frattempo ha smesso di piovere, ma il terreno è fradicio. Siamo sui 2.400 metri d’altitudine. Dopo aver attraversato diversi campi coltivati, raggiungiamo i confini del parco: nient’altro che un vecchio cancello metallico sghimbescio, ai lati un muretto di un metro e mezzo. É qui che inizia il trekking vero e proprio. L’avvio è piuttosto agevole, ma ben presto si sale ripidi nella foresta pluviale, sempre più fitta. Non c’è una vera e propria rete di sentieri, tanto che Hope, là davanti, si apre la strada con il machete. In molti punti bisogna strusciare tra la vegetazione e serve molta attenzione perché è pieno di “stinger arrow”, maledette piante con foglie spinose che bucano anche i vestiti e fanno un male cane, come trafitture di spillo.
Vincent a un tratto si ferma, raccoglie un rametto da terra e lo alza davanti ai nostri occhi schifati: ha tirato su un verme gigante, una specie di millepiedi gonfio di ormoni. Sarà lungo quasi quaranta centimetri, e di cosa si sia cibato non vogliamo proprio saperlo. Camminiamo ancora a lungo, sino a quando ci imbattiamo in un gruppo di quattro uomini di colore, che sembrano aspettarci. Hanno i bastoni e i walkie-talkie: sono i trackers. Loro sanno dove stanno i gorilla. Hope ci dice di lasciare in questo piccolo spiazzo tutti i nostri zainetti. Possiamo portare con noi solo fotocamere o minicamere.
“Fidati: lascia il binocolo nello zainetto”
Il binocolo?” chiedo io.
“Non ti servirà”, dice Hope sorridendo.
I soldati restano lì con gli zaini, a dimostrazione del fatto che non spareranno certo ai gorilla, casomai dovessero attaccarci. Noi continuiamo a salire in fila indiana, in un fogliame sempre più fitto. Ad un tratto, Hope si ferma, portando l’indice al naso per indicarci il silenzio. Poco più avanti, rumore di rametti spezzati e foglie scostate. Adesso lo vedo: è un gorilla e sta pranzando. Il cuore prende a battere all’impazzata: è davvero vicino, in linea d’aria saranno cinque o sei metri. Gli altri non lo scorgono, perché sono dietro in fila indiana. Vorrebbero correre là dove sono io, ma la guida –che conosce bene l’eccitazione del primo avvistamento- fa cenno di non agitarsi e indica che possiamo procedere. Pochi passi, e sono tutti lì. Vicinissimi. In questo punto, la foresta un po’ si dirada. Hope gesticola: possiamo sfilare dietro di lui e metterci a lato della piccola radura, per poterli osservare meglio. Altro che sette metri: un paio sono così vicini che con due passi potremmo persino toccarli. Chi aveva preparato i teleobiettivi li svita: più che lo zoom, servirebbe quasi quasi un macro. Ne contiamo quattordici, quelli visibili a occhio nudo. Gli altri, devono essere in alto sugli alberi.
Il silverback, gigantesco, se ne sta sdraiato sull’erba bagnata, circondato da un paio di femmine. E poi ci sono molti piccoli, semplicemente incredibili. Dolcissimi, giocano proprio come bambini. C’è qualcosa di strano, e ci vuole un po’ di tempo per capire cosa sia. É il silenzio. Emettono solo qualche piccolo grugnito, ed è un bene. Perché se uno solo di loro si mettesse a parlare (che verso fanno i gorilla?) credo scapperemmo tutti all’istante, terrorizzati. Invece no, persino i piccoli giocano senza fare rumore. Si danno spintarelle reciproche, rotolandosi nell’erba. Oppure spulciano le madri che, comprensive e forse anche riconoscenti, lasciano fare. A sei o sette metri, un gorilla spezza i ramoscelli di una pianta e mangia foglie e germogli a volontà. Noi, come bambini che vedono per la prima volta il mare, ci guardiamo l’un l’altro sorridendo di felicità. E scattiamo foto come cinesi davanti al Colosseo.
Qualcuno del gruppo tossisce. É Kate. Hope la richiama al silenzio, noi saremmo pronti a lapidarla per il timore che il branco, infastidito, se ne vada. Ma non accade niente. Un maschio giovane si avvicina a Claire, apparentemente incuriosito. Uno dei tracker se ne accorge e fa un rumore con le labbra, qualcosa simile ad un “tzt tzt”. E il gorilla si gira su se stesso e torna in mezzo agli altri. Lasciata alle spalle l’ansia da prestazione, ovvero il timore di non aver fatto abbastanza foto, i più iniziano a rilassarsi. Mettono via le fotocamere e si godono la scena. È già un’ora abbondante che siamo lì. E ora dobbiamo andarcene, perché queste sono le regole: sessanta minuti di osservazione ravvicinata, non di più perché i gorilla non devono abituarsi alla presenza dell’uomo. Come se avesse regolato il suo orologio interno, mentre Hope ci fa cenno di iniziare ad allontanarci, il silverback si scuote, emergendo nella sua enorme stazza. Si solleva, lancia uno sguardo indifferente verso di noi e si allontana nella direzione opposta, camminando goffamente sulle nocche e mostrandoci la sua incredibile schiena striata d’argento. Subito dopo, ricomincia a piovere. Nel giro di pochi minuti, sulla foresta si abbatterà un diluvio.
Un ultimo sguardo, quindi iniziamo a scendere. Recuperiamo gli zaini, ci rimettiamo in fila indiana con i soldati, lasciando sul posto i trackers. Tornare indietro non è uno scherzo, ma siamo così felici che potremmo anche saltellare a piedi uniti verso le jeep che, da qualche parte là sotto, ci aspettano.
Da Nairobi a Nairobi in circolo: Kenya – Uganda – Ruanda, 21 giorni; Dragoman 2008