Turismo: ma che bello giocare a fare i poveri, tra favelas e malati

“Venghino signori e signori, questa è la prima baraccopoli del mondo dotata di wifi e pavimento riscaldato”. Testuale, su web. Fantastico, verrebbe da dire: magari, a questi poveracci danno anche qualcosa da mangiare… Poi, però, scopri che la “Shanty Town” di cui sopra è in realtà un folle progetto di turismo alternativo, più che una bidonville fortunata. Siamo in Sudafrica: guardate qui lo “spottone”:

Una specie di set cinematografico, un po’ Universal Studios un po’ Eurodisney: divertimento trash per turisti occidentali che vogliono giocare a fare i poveri, almeno per una notte. E non è mica un devertissement snob per ricchi: la stanza con due letti a castello costa 850 rand a notte: 60 euro, quasi niente. In più, qui alla Emoya’s Estate in Sudafrica ti puoi anche sposare. E le nozze nello slum rischiano di essere più cool delle “wedding chapels” di Las Vegas.

Vengono in mente le “celebrities” di Mission, il contestatissimo simil-reality di Rai Uno che, mesi fa, conquistò più sdegno che share. Se da una parte il flop di Al Bano & Co. inviati nei campi profughi dimostra che la sfiga in prima serata non tira, dall’altra c’è da riconoscere che gli autori del programma hanno trasformato in format televisivo un fenomeno complesso, di cui da anni si discute nel mondo del volontariato e delle ONG, le organizzazioni non governative che si occupano di programmi di sviluppo e cooperazione.

E’ il fenomeno del volonturismo, o meglio della sua “dark side”. Ovvero, la scelta di persone – soprattutto giovani, ma non solo – che vogliono abbinare la propria vacanza a un’esperienza solidale. Nulla di male, in teoria. E poi bisogna distinguere, sempre e comunque. I molti detrattori sostengono che il buonismo occidentale lava-coscienza, specie se applicato su vacanze di una o due settimane – se non addirittura un “pomeriggio libero” – aumenta il parassitismo sociale di gruppi e comunità che dovrebbero essere aiutati a cercare di farcela da soli; che spesso i volontari sono totalmente inadeguati, e in certe situazioni la buona volontà non basta affatto; e che c’è chi , sulla generosità e la creduloneria dei “westeners”, specula con insospettabile cinismo.

Il caso più noto è quello dell’orphanage tourism

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L’Unicef ha documentato  un rapporto causa-effetto tra la crescita del turismo e l’aumento esponenziale nel numero degli orfanotrofi: a Bali, negli ultimi vent’anni sono addirittura raddoppiati; in Ghana, 140 strutture su 148 operano senza licenza e il 90 per cento dei bambini non sono affatto orfani; nella Thailandia del nord, attorno a Chiang Mai, agiscono i “reclutatori” che pescano i bambini dalle zone tribali.

La capitale mondiale del fenomeno è in realtà la Cambogia: qui, dal 2005 a oggi gli orfanotrofi sono aumentati del 65% (ora sono più di 300, di cui solo 21 governativi) proprio in coincidenza con il boom turistico del paese, e non ci sono dubbi sul fatto che la maggior parte siano stati allestiti solo per “estorcere” soldi ai turisti di passaggio o guadagnare sulle “fees”, le tasse che i volontari pagano per poter aiutare; sempre secondo l’Unicef, il 72% dei 12 mila piccoli ospiti delle strutture non sono orfani, ovvero hanno almeno un genitore vivente. Significativamente, la più alta concentrazione di orfanotrofi si registra a Siem Reap, la porta d’accesso ai templi di Angkor, principale attrazione turistica del paese; un fenomeno ben raccontato in un’inchiesta di Al Jazeera English:

Nel febbraio del 2012, il governo cambogiano ha aperto un’inchiesta su 271 orfanotrofi ufficialmente registrati chiudendone settanta per via della malnutrizione e delle carenze educative. Eppure, i soldi dei turisti “buonisti” – in inglese li chiamano “with the Best Intentions”, con le migliori intenzioni – continuano a piovere.

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Lo spirito di “Mission” è dentro noi, sembrano dire i fatti. Come potrebbero altrimenti prosperare fenomeni come lo slum tourism? Qui non parliamo più di dormire in una finta baraccopoli, ma di visitarne una vera. Senza la scorta dei marines, potendo addirittura scattare foto: la povertà come attrazione, di fatto. L’Università di Potsdam in Germania terrà una “tre giorni” sul tema, nel maggio del 2014. Obiettivo: analizzare l’impatto, l’etica e le motivazioni che spingono un numero crescemte di turisti ad immergersi a tempo in questi luoghi di emarginazione e degrado sociale. Del resto già nel 2010, l’anno dei mondiali di calcio, il Sudafrica offriva i “township tours”, visite organizzate alle immense baraccopoli figlie dell’apartheid, ancor prima che della miseria.

Ecco lo spot di RoomsForAfrica:

Quattro slums in mezza giornata: nei dintorni di Città del Capo, Durban o Soweto. Un turismo sociale, verrebbe da dire: pensato per viaggiatori consapevoli, che vogliono conoscere e saperne di più. I tour sono inequivocabilmente politically correct, nelle township si racconta la storia della segregazione razziale (un po’ come in Ruanda e in Cambogia le guide turistiche ti raccontano i rispettivi genocidi) e adesso che Nelson Mandela è morto, chissà a cosa staranno pensando per “onorarne la memoria” sì, ma ai fini commerciali.

Dài, una bella gita alla favela…

In Brasile, in verità, si erano mossi molto prima. Sono anni che la favela di Rocinha, la più grande del mondo con i suoi quasi 200 mila abitanti, è meta di viaggi organizzati. Attualmente, almeno nove organizzazioni offrono gite turistiche tra le case e baracche costruite abusivamente una sopra l’altra sulle instabili colline di Rio.

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Un’attrazione da brivido, con i turisti che si immaginano di assistere da un momento all’altro agli assalti dei reparti speciali contro i narcos, immortalati nel film-verità “Tropa de Elite”. Persino TvRioTur, la tivù della promozione turistica cittadina, propaganda le visite guidate alla favela:

Proprio a Rocinha si comprende bene la differenza tra l’organizzazione di tour “sensibili” da parte di associazioni che finanziano così asili, scuole o servizi sociali e lo sfruttamento turistico da parte di agenzie di viaggio e catene d’alberghi che non lasciano nulla sul territorio, e verso i quali sta montando una notevole avversione da parte delle comunità che gestiscono la favela. A visitare realtà simili si può andare anche… in crociera. Per informazioni rivolgersi al gruppo Crystal Cruises, che fa sbarcare i suoi turisti per una visita al barrio di Cartagena in Colombia o al Villaggio SOS di Montevideo in Uruguay:

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Anche prestigiose catene alberghiere si danno da fare nel filone del “luxury voluntourism”. A partire dal Ritz-Carlton. Se siete a Newy York, tanto per fare un esempio, potete scendere dalla vostra suite che dà su Central Park e fare pochi passi, per recarvi nella vicina mensa per senzatetto dove potrete servire un pasto caldo:

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L’agenzia americana Hans-up Holidays offre un variegato catalogo di esperienze: “Viaggi deluxe ritagliati su misura e che fondono le visite a esperienze significative di volontariato:

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Ci crede persino la rivista Forbes, che sul suo sito pubblica una guida online sul tema. Se poi decideste di andare a divertirvi agli Universal Studios, tra una giostra e l’altra potreste anche trascorrere qualche ora nel vicino villaggio Give Kids The World , dove sono alloggiati bambini con malattie inguaribili, perplopiù mortali. Un bel piano liberatorio, una donazione e via, verso la prossima attrazione.

D’accordo, questa è l’America: ma non è che l’Europa si tiri indietro, anzi: una bella pennellata di buonismo è ormai imprescindibile anche per molti tour operator, dal gigante tedesco Tui all’Elefante a Kuomi (“Luna di Miele solidale”) che considerano la parte “social” di un viaggio ormai un tutt’uno con l’esperienza in sé, si tratti di una semplice “cena etnica” o del tentativo di mettere in contatto due mondi: le camere con wifi, tivù satellitare e aria condizionata e le baracche in cui vive il personale dei villaggi vacanze, ben nascoste alla vista perché darebbero un certo fastidio.

Ecco, forse il trend sarà questo: le baracche resteranno dietro le alte siepi dei Tropical club, ma prima dell’aperitivo sarà possibile visitarle e i camerieri si toglieranno la divisa, si metteranno l’anello al naso e reciteranno il ruolo degli indigeni simpatici e gioviali, prima di tornare a servire cocktail e tartine aspettando gli avanzi dell’all-inclusive lasciato lì “che tanto è tutto gratis”.

 Il mio articolo originale scritto per l’Espresso online

 

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