Reggiane: Carlo Vannini racconta la street art nelle ex officine meccaniche

“Vieni, entriamo da lì”.

Viste dall’alto, diciamo su Google Earth, le Officine Meccaniche Reggiane (che in realtà occupavano originariamente un’area ben più vasta e asimmetrica) appaiono oggi come un enorme rettangolo bicolore – mattoni rossicci e cemento grigio – tra il fascio di binari della ferrovia, il sedicente aeroporto e le casette del rione Santa Croce.

Dal basso, la prospettiva cambia radicalmente. Mura di cinta, cancelli, inferriate. E varchi abusivi. Da lì entrano writers e street artist, senzatetto e volontari, drogati e spacciatori. Da lì, entriamo anche noi.

Street art e Wow effect

Gli americani lo chiamano Wow Effect. E’ quando spalanchi la bocca per la meraviglia: qui, siamo al cospetto di  un’archeologia industriale a dir poco imponente, di quelle che non sai bene dove guardare. Le proporzioni da bianco e nero, ombra e luce; i vecchi lucernari, la filiera di lana di roccia che tentava invano di attenuare il rumore assordante dei macchinari, e oggi le pareti quasi interamente ricoperte di “pittate”. E il senso dell’orientamento che si annebbia, un po’ come l’effetto Fata di Morgana in autostrada.

“Attento a dove metti i piedi”.

Il suolo è l’unico posto che non guarderesti. E invece no, ti conviene prestargli attenzione, molta attenzione. Lo capisci ben presto dallo scalpiccio sotto le suole. Vetri rotti, fili di ferro e resti di tondini contorti, cumuli di macerie, tombini scoperti.  Mille trappole invisibili. E’ un percorso a ostacoli, dove la gimkana per non inciampare fa da irreale contraltare alla simmetria assoluta delle colonne impilate in prospettiva.

Prima di entrare là dentro, ero entrato in città come direttore della Gazzetta di Reggio, il principale quotidiano locale. Non mi avevano parlato in molti delle ex Reggiane, a dire il vero.

“Tossici, spaccini, poveracci e graffitari”. Sintesi cinica ma efficace. Quattro categorie per venti ettari di capannoni sventrati, spolpati, abbandonati.

Frammenti sparsi, e un progetto

Dopo qualche mese dal mio arrivo (luglio 2014), molto prima di esserne risucchiato, mi ero appassionato di quella storia così intensa, piena di sorrisi e di lacrime, di successi e di fallimenti: personali e collettivi. E avevo fatto una scoperta del tutto inattesa: nessuno, ancora, aveva messo insieme i pezzi di quella epopea. Ognuno aveva un suo frammento, e se lo teneva ben stretto. Gli archivi del Comune, la Camera del Lavoro, l’Università, la biblioteca Panizzi.

Ho pensato che il giornale avrebbe potuto fungere da “aggregatore neutro”, superando divisioni e gelosie improduttive. Sulle Reggiane, in città, era calato l’oblio. Un attentato alla Memoria.

Il primo passo è stato creare un portale Internet. Il secondo, raccogliere e produrre: articoli, foto, video testimonianze, mappe. Costruendo nuovi percorsi, cercando le sinergie mancanti, ricostruendo frammenti e trasferendo poi il tutto anche sulle pagine del giornale.

I primi incontri carbonari

La street art, quella è venuta dopo. Folgorante, come i primi incontri “carbonari” con gli artisti (e alcuni splendidi amici che mi sono venuti in dote) che mi guardavano con sospetto. Avevano notato il mio interesse, ovviamente. Mi annusavano: erano lì perché volevano capire se potevano fidarsi.

Ci sono volute settimane, mesi. Discussioni complicate con un mondo autoreferenziale, ideologicamente refrattario alla stampa e pieno di vezzi (oltre che di creatività, beninteso) che difficilmente si apre verso l’esterno. Ma qualcuno aveva deciso che ero stato promosso sul campo.

Tag su internet, tag su muro

E’ così che sono entrato la prima volta alle Reggiane. Roba clandestina, vagamente eccitante. Là dentro, il primo riflesso incondizionato è fotografare tutto, come i turisti a Venezia. Poi, subentra la difficoltà ad orientarsi: tra un capannone e l’altro, ma anche tra storia e memoria. Tra la decadenza di una bella storia finita male e la potenza visiva di quelle opere che hanno ridato vita al cadavere ibernato, senza prendersi – né pretendere – un ringraziamento da chicchessia.

E le opere? Alcune le capisci, altre no. Il writing, per dire: non è per niente facile. Poi inizi a distinguere le tecniche, a decifrare le lettere, a riconoscere le tag (la firma dell’artista), ad appassionarti alla ricerca sui colori e sui pattern dimensionali.

Intuisci, ma lentamente, che ci sono notevoli differenze tra un lavoro e l’altro. Tra allievi e maestri. Ma ci vuole del tempo, e soprattutto la voglia di prenderselo.

Per la street art, per i murales, per i “pezzi”, è decisamente più facile. Mi piace, mi fa schifo. Giudizio soggettivo, immediato, a pelle: come in un museo d’arte moderna o contemporanea. Nessuno ti spiega niente: reazione di pancia, secondo la tua estetica o il messaggio che credi di trovarci.

Open factory

Le Reggiane sono state (parlarne al passato fa male) il più grande laboratorio di street-art all’aperto di Europa, dicono fieri quelli del Collettivo Fx. Che mi hanno accolto nella loro famiglia, consentendomi anche di partecipare alle jam sessions. Alcuni, tra quelli che ho conosciuto, producono lavori che finiscono nelle gallerie d’arte. Altri organizzano mostre o happening. Altri ancora girano con la bomboletta in tasca e pittano d’impulso, su un treno o su una cabina di trasformazione. Altri, fanno tutte queste cose insieme. Capisco chi li disprezza, ma non sembri contraddittorio: gli haters vanno di moda, di questi tempi. Io, invece, li amo. Perché sono artisti, perché sono complicati e contraddittori.

Passato e presente, futuro così così

E amo le Reggiane. Ho scritto al presente. Un po’ per scaramanzia, un po’ per fissare quei ricordi. Perché quella stagione non ritornerà. Gli escavatori stanno livellando il pavimento dei capannoni, dopo averlo drenato per rimuovere metalli pesanti e residui di lavorazioni. I bulldozer, le gru, gli architetti fanno il resto. Ci vorranno anni, tanti soldi e altrettante idee per ridare vita alle ex Reggiane.

A me piace ricordarle così, cristallizzate nelle splendide foto di Carlo Vannini.

Ho visto quel che c’era prima, non so dire se vedrò quello che verrà dopo. Né se mi piacerà.

C’ero. Per un breve periodo, ma ci sono stato. E questo mi basta.

Carlo Vannini, “Reggiane” – Corsiero Editore

 Carlo Vannini è fotografo degli oggetti che fanno cultura: opere d’arte, reperti archeologici, restauri, strutture architettoniche, scorci urbanistici, ma anche manufatti senza nobiltà, eppure abitati da un forte senso della storia. È nato a Reggio Emilia nel 1956; lo zio pittore e il padre decoratore lo hanno avviato alla confidenza con i materiali artistici. Dopo una breve esperienza amatoriale, ha maturato una forte passione per la riproduzione professionale delle opere d’arte, che lo ha guidato in coinvolgenti avventure di documentazione del restauro, attraverso una progressiva acquisizione di tecniche fotografiche, quali ultravioletti, infrarossi, luce radente, luce trasmessa e luce a specchio.Insegna Fotografia per i Beni Culturali all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Ha realizzato fotografie per cataloghi e libri d’arte con i maggiori editori italiani: Franco Maria Ricci, Mazzotta, Allemandi, Skira, Federico Motta, Silvana. Tra dicembre 2015 e maggio 2016 ha eseguito la campagna fotografica in giga pixel 1:1 della Cappella Sistina,per il libro in tre volumi La Cappella Sistina, ScriptaManeant 2016. Tra le pubblicazioni più recenti, la serie “Bizzarro Bazar” per le edizioni Logos: La veglia eterna. La cripta dei Cappuccini di Palermo (2014), De Profundis. Il cimitero delle Fontanelle di Napoli (2015), MorsPretiosa. Ossari religiosi italiani (2015), Sua Maestà anatomica. Il museo Morgagni di Padova (2016). Con corsiero editore ha pubblicato i libri: Memento (2013), Assenza? (2014) e I maestri muti dell’Appennino (2015); e ha collaborato a: Novanta artisti per una bandiera (2013),  La Porta filosofica di Claudio Parmiggiani per il Sacro Eremo di Camaldoli (2013), Il gusto della contaminazione (2015), Calzolari, Morandi, Parmiggiani(2015), Tre cene per un sipario con Davide Benati, Giuliano Della Casa, Omar Galliani (2015), 100+1 brevi di cronaca dai Musei Civici di Reggio Emilia di Attilio Marchesini (2016), Il sipario di Anselmo Govi per il teatro Ariosto (2016). www.carlovannini.it

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